Camilla ha chiesto speranza e strategie per alimentarla
Mentre un giornalista si è alzato ed è uscito dalla stanza
Eh buongiorno a te!
Arrivo a questo venerdì un po’ affaticata: la settimana di Sanremo fa questo effetto. Sì, sono del team “guardo il Festival” ed è così perché mi riporta a quelle serate scalze sul divano con mia mamma e mia sorella.
Ma è così anche perché mi sono occupata di spettacoli durante la mia carriera giornalistica e ho avuto la fortuna di trovarmi proprio lì. A vivere quella atmosfera surreale. L’ultimo Sanremo condotto da Pippo Baudo da solo (2007?).
Ed è così anche perché trovo che sia sempre una finestra sul momento storico che stiamo vivendo: riflette le storie, i sentimenti, gli eventi, le sfumature della società.
E infine, è così perché mi perdo nei testi e mi lascio trasportare nelle storie e nelle parole.
Non ti parlerò di Sanremo in questa newsletter. Ma di giovani e di speranza.
Ho parlato, nella scorsa settimana, con tre ragazze che sono affascinate dal giornalismo e che mi hanno contattata per avere il mio punto di vista. Una di loro sta lavorando alla tesi, le altre due vogliono prendere il tesserino ma hanno tanti dubbi.
Anche il dubbio che ha avuto Camilla, una studentessa che ho incontrato qualche anno fa.
Esistono storie che possono mostrarci la strada del futuro?
Di fronte a un’aula di studenti universitari scelgo sempre di non portare una lezione preparata. Se il tempo insieme è determinato da un solo incontro preferisco dedicarmi unicamente alle loro domande. So che ne hanno tante sul giornalismo. E le risposte che mi sollecitano mi invitano anche a riflettere ulteriormente e fare ordine tra ciò che conosco, che studio e che metto in pratica nella mia quotidianità professionale.
È andata così anche un giorno di qualche anno fa all’Università di Brescia.
Camilla ha alzato la mano per intervenire: «Voi adulti ci dite spesso che noi ragazzi cambieremo il mondo. Probabilmente è così, e noi lo sappiamo. Quello di cui abbiamo davvero bisogno non sono vostre parole di ispirazione ma di modelli da seguire. Diteci come lo possiamo cambiare il mondo. Esistono storie che possono mostrarci la strada del futuro?»
Touchée, direbbero i francesi.
L’intervento di Camilla è stato lì per lì un fulmine a ciel sereno.
Di quelli che mi fanno mettere in dubbio la mia scelta di presentarmi davanti ai ragazzi senza una lezione preparata. Se mi stavi dando della coraggiosa sono certa che ora starai pensando che sono anche incosciente. E forse hai ragione. Ma quel dubbio, dura davvero pochi attimi per lasciare poi spazio alla consapevolezza che è solo così che si può crescere, insieme.
Camilla stava esprimendo un’esigenza e al tempo stesso mettendomi di fronte a una critica costruttiva. Chissà quanti, tra i suoi compagni, stavano pensando la stessa cosa. Noi adulti continuiamo a motivare i ragazzi a credere nel futuro e alla possibilità di cambiare il mondo. Diamo loro una grande responsabilità senza portare in dote una cassetta degli attrezzi. Ce ne laviamo le mani. Lo so è un’affermazione forte ma dobbiamo guardarci allo specchio con sincerità e ammettere che è così.
Abbiamo bisogno di speranza, noi tutti.
Charles Snyder ha affermato che esistono tre componenti associati alla speranza:
avere pensieri orientati agli obiettivi.
Sviluppare strategie per raggiungere gli obiettivi.
Essere motivati per impegnarsi a raggiungere gli obiettivi.
La convinzione nella nostra capacità di sostenere queste componenti è ciò che determina la probabilità di sviluppare un senso di speranza.
Ecco cosa ha chiesto Camilla: speranza e strategie per alimentarla.
Il giornalismo ha un ruolo in tutto questo
Il ruolo dei giornalisti non è quello di focalizzare l’attenzione su fatti non ancora accaduti. L’informazione racconta fatti con un focus ben definito su passato e presente. Il futuro, a ben guardare, difficilmente prende parte alla narrazione. Quello che ti propongo, però, è di pensare a come un giornalista una giornalista possano favorire un dibattito orientato al futuro che coinvolga la comunità intera e in particolare chi ha potere decisionale e ha un significativo impatto sociale.
«Ma noi giornalisti non dobbiamo rassicurare le persone o dare speranza!».
Non è stata Camilla a fare questa affermazione ma un collega giornalista durante un corso di formazione per l’Ordine Dei Giornalisti.
«E perché no?» ho risposto.
Il collega non ha detto nulla a parole. Ha utilizzato il linguaggio non verbale lasciando l’aula mentre io stavo raccontando di come sia fondamentale oggi stare nella narrazione costruttiva e orientata alla soluzione per alimentare il benessere della nostra società. È il rischio che si corre quando si propone una visione che va in controcorrente rispetto a quanto ci viene proposto e chiesto. Se quel collega avesse aspettato ancora un po’, avrebbe scoperto che ciò di cui stavo parlando era il valore del giornalismo come servizio pubblico. Non qualcosa di nuovo ma un invito a tornare alle origini della professione.
«Il giornalismo tende ad essere uno specchietto retrovisore. Preferiamo occuparci di quello che è successo, non di quello che ci aspetta. Prediligiamo ciò che è eccezionale e ben visibile rispetto a ciò che è ordinario e nascosto»
Alan Rusbridger - The Guardian
L’aereo non si è schiantato
Noi giornalisti abbiamo un impatto importante nel modo di pensare delle persone. E questo dipende da come costruiamo le notizie. Una responsabilità con cui dobbiamo fare amicizia e sulla quale è necessario riflettere con attenzione. La narrazione, oggi, è fortemente orientata al negativo perché fa leva sugli istinti primordiali degli esseri umani. Il nostro cervello ha come suo principale obiettivo quello di identificare il pericolo e di proteggerci da esso. Ragione per cui abbiamo un forte istinto alla negatività che determina anche la nostra relazione con l’informazione.
Nel suo libro “Factfulness” Hans Rosling (se non lo hai letto sappi che è un libro necessario!) scrive che l’istinto alla negatività è «la tendenza a notare più gli aspetti negativi che quelli positivi». Considerando che la narrazione è fortemente orientata al negativo, va da sé che viviamo tutti nel costante pensiero che le cose stiano peggiorando.
«Se un giornalista parlasse di un aereo che non si è schiantato o di un raccolto che non è andato male, perderebbe ben presto il lavoro – scrive Rosling nel suo libro – Le notizie sui miglioramenti graduali finiscono raramente in prima pagina, anche quando i progressi si verificano su larghissima scala e riguardano milioni di persone». Più avanti nel testo Rosling aggiunge una riflessione molto interessante che, a mio avviso, può essere un ottimo punto di partenza per riflettere insieme sugli obiettivi del giornalismo costruttivo.
«Non sono ottimista. Questa etichetta mi fa sembrare ingenuo. Invece sono un “possibilista” molto serio. Attribuisco a questo termine un significato tutto mio. Designa una persona che non spera senza ragione né teme senza ragione, che resiste costantemente alla visione iper drammatica del mondo. Essendo possibilista, vedo i miglioramenti, ed essi mi infondono la convinzione e la speranza che altri progressi siano possibili. Questo non è essere ottimisti, bensì avere un’idea chiara e ragionevole di come stanno le cose, avere una concezione del mondo utile e costruttiva».
Se ora fossimo davanti a un caffè o a un tè ti chiederei se queste parole abbiano su di te l’effetto che hanno su di me. (Puoi sempre scrivermi qui sotto nei commenti, naturalmente).
Mi fanno sentire forte il desiderio di fare meglio, di andare a cercare quelle storie che raccontano possibilità. Ci ritrovo quello che mi ha conquistato del giornalismo costruttivo. L’idea di raccontare i problemi focalizzandosi sulle storie di chi sta facendo qualcosa, l’obiettivo di sostenere la speranza arricchita dalla ragione, il desiderio di mostrare come il cambiamento sia possibile sottolineando come ogni membro della società possa avere un ruolo per favorirlo.
La speranza non è illusione
Ridiamo valore alla speranza nella sua definizione più profonda.Quella che gli psicologi riconoscono come il meccanismo di adeguamento emozionale che nasce dal desiderio e dalla convinzione che un futuro immaginato possa diventare realtà.
La speranza è ciò che ci occorre per gestire e contrastare la nostra idea di un mondo che sta andando in rovina.
Ne abbiamo bisogno per procedere, per credere che un mondo migliore sia possibile. Avere speranza non significa ignorare le possibilità che le cose non vadano come vorremmo. Mettiamola così: avere speranza non ci spinge a ignorare le possibilità negative ma nemmeno quelle positive.
Nella mitologia greca, Pandora è stata la prima donna mortale voluta da Zeus il quale le ha affidato il noto vaso chiedendole di non aprirlo mai. La sua apertura, infatti, avrebbe liberato tutti i mali in esso custoditi che si sarebbero diffusi tra gli uomini. Ma Pandora, incuriosita, non ascoltò quanto detto da Zeus e aprì il vaso liberando quindi: vecchiaia, gelosia, malattia, dolore, pazzia e vizio. Mali che si abbatterono sul genere umano. Nel vaso rimase la speranza che non fece in tempo a uscire perché il vaso venne richiuso. Se prima il mondo era un luogo in cui gli uomini erano immortali perché liberi da fatiche, preoccupazioni e mali, dopo l’apertura del vaso di Pandora il mondo divenne un luogo desolato, inospitale e cupo. Fino a quando, Pandora, decise di liberare anche la speranza.
La speranza non coincide con la consolazione o con l’illusione. Andando più in profondità, anche ripensando alla storia della mitologia greca, emerge un valore della speranza differente:
un’opportunità per risollevare gli esseri umani dalle preoccupazioni, dai mali e dalle difficoltà.
Il suo prerequisito è un senso di insoddisfazione rispetto alla situazione attuale. Questo stato crea un terreno fertile per ambire a qualcosa di migliore. Se pensiamo a tutti i movimenti per i diritti civili nati nel mondo nei secoli, si sono nutriti di un’intensa insoddisfazione alimentata da sentimenti di rabbia e ingiustizia. Ogni volta è stata la speranza a far sollevare la testa e iniziare una campagna attiva verso un futuro migliore. Possiamo sentirci ottimisti anche quando non abbiamo la possibilità di intervenire nella situazione, ma siamo speranzosi quando il nostro credo si tramuta in azione. La speranza nasce dalla percezione di poter fare qualcosa concretamente, dalla motivazione che si genera quando comprendiamo che un pensiero può essere trasformato in realtà. È il carburante emozionale che ci spinge a gestire lo stress e a perseverare nonostante i problemi.
La speranza non è una negazione della realtà ma, piuttosto, un rifiuto costruttivo della realtà alimentato dalla certezza che si possa fare meglio.
Tutti i visionari che hanno cambiato la storia hanno tratto forza dalla speranza. Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Marie Curie hanno avuto un tratto caratteristico in comune: hanno creato nuovi mondi sulla base di ciò che sembrava loro possibile. Hanno avuto la capacità di vedere oltre ciò che era per cercare cosa sarebbe potuto essere.
Hanno avuto speranza nel momento in cui hanno visto cosa fosse possibile e non cosa fosse solo probabile.
Stiamo nel possibile, allora.
Ti va?
Assunta