Venerdì: facciamo che sia buono!
Ho trascorso una settimana faticosa, confesso. Di quelle cariche di emozioni, riflessioni, pensieri e di mail e messaggi a cui rispondere. Il tema è sempre lo stesso: ma cosa sta succedendo al giornalismo?
Ho avuto bisogno di fermarmi dalle condivisioni su quanto è accaduto (e ci arriviamo fra un attimo) per unire i famosi puntini. Del resto me lo insegna il giornalismo costruttivo in cui credo. Aspetta, unisci, verifica e poi scrivi o parla.
Prima di arrivare al tema di oggi però un breve viaggio altrove. Riflettevo sul tempo grazie a un amico, Riccardo, che mi ha suggerito un libro che leggerò: “Salvare il tempo” di Jenny Odell. Ne ho letto l’introduzione e ti dono queste parole:
Nemmeno l’orologio, per quanto determini i nostri giorni e le nostre vite, ha mai del tutto conquistato la nostra psiche. Tutti noi conosciamo molte diverse varietà di tempo, sotto la griglia dell’orario: la qualità elastica dell’attesa e del desiderio, il modo in cui il presente può all’improvviso apparire venato di memorie dell’infanzia, il processo lento ma sicuro di una gravidanza, o il tempo necessario a guarire dalle ferite, fisiche o emotive che siano. Essendo animali di questo pianeta, viviamo all’interno di giornate che si allungano e si accorciano. All’interno di un clima, in cui alcuni fiori e profumi tornano a farci visita a distanza di un anno, almeno per ora. A volte il tempo non è denaro, piuttosto è queste altre cose.
E infatti è proprio la consapevolezza di questi piani temporali sovrapposti che ci dovrebbe far venire il dubbio che stiamo vivendo secondo un orologio sbagliato.
Questa è una delle poche volte che consiglio un libro prima di averlo letto. Ma arriva da una persona che so avere una certa sensibilità e ho trovato affinità nelle parole dell’introduzione. Negli ultimi anni ho lavorato proprio sul tempo: rallentando e dando valore a quelle “altre cose” di cui scrive la Odell. E in parte questo ha a che fare con quello che sto per scriverti.
Gogna mediatica: solo il nome fa tremare
Esporre qualcuno che ha commesso un errore al disprezzo degli altri. Questa è la gogna. Diventa mediatica quando a farlo è il mondo dell’informazione. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a questo fenomeno violento e pericoloso. La signora Giovanna Pedretti, ristoratrice del lodigiano, risponde a una recensione al suo ristorante scritta da un cliente infastidito per la presenza di disabili e omosessuali.
La stampa non verifica e decide che questa è una notizia. Lo diventa perché tocca temi delicati e dal click facile. Per lo più, nel giornalismo digitale, funziona così: si fa girare la notizia e poi si osserva cosa accade. Se funziona si aggiungono dettagli e sfumature. E quindi altre notizie. Se no si lascia cadere la storia nel vuoto e si volge lo sguardo altrove. (Qui è dove noi tutti come pubblico giochiamo un ruolo fondamentale!).
Ma in questo caso ha funzionato. La signora Pedretti viene osannata dai media. Fino a che qualcuno non fa il lavoro che ogni giornalista dovrebbe fare (e che non è stato fatto!): verifica la notizia e mette in dubbio la veridicità della recensione e della risposta. Ma non fa solo questo: offre in pasto la storia ai social network e mette in moto la gogna mediatica. La signora Pedretti muore per annegamento.
Ci sono ancora tanti elementi da chiarire, quindi non mi esprimo oltre, ma la gogna mediatica è in pieno vortice e coinvolge anche chi ha deciso di verificare la notizia. Non c’è fine alla rabbia e al disgusto. Sono istinti primordiali che, in questi casi, alimentano il cyberbullismo: una volta che la gogna è attiva sulle piattaforme che frequentiamo ognuno si sente autorizzato a commentare. E solitamente in questi casi fortemente polarizzanti leggiamo commenti di odio, disprezzo e facili conclusioni.
Sono i media a guidare la narrazione. Ed è questo che ha reso complesse le mie giornate.
Non sappiamo cosa emergerà dalle indagini, ma tutto questo mi ha profondamente turbata per l’odio che ho percepito e che ho rivisto anche nel pandoro gate che sta interessando Chiara Ferragni.
Non è giusto. Mi ripeto da giorni.
Torto o ragione, piace o non piace: se provassimo ad allontanarci da questa dicotomia potremmo forse mostrare quel lato empatico che contraddistingue gli esseri umani?
Una responsabilità di ognuno
E se fosse successo a me? E se succedesse a me?
Due domande che non ci impediscono di sbagliare ma che di certo permettono di ridurre il margine di errore, di mettersi in punta di piedi prima di entrare nella vita altrui e di fare marcia indietro se serve.
Non è possibile in alcun modo pensare che le parole che mettiamo in circolo non abbiano alcun effetto sugli altri. Abbiamo tutti una responsabilità: siamo tutti protagonisti della storia.
Provando a mettere insieme i pezzi, ti condivido alcuni spunti su come contribuire in modo costruttivo a evitare il dilagare della gogna mediatica. Prendili come pensieri ad alta voce, frutto delle risposte ai messaggi che ho ricevuto in questi giorni.
Un pizzico di scetticismo ci salva dalla condivisione compulsiva.
Più fonti e diversi orientamenti editoriali allenano il pensiero critico. Stanno nascendo tanti media indipendenti: territori interessanti da esplorare. Sempre con attenzione.
La gogna mediatica fa leva sulle nostro emozioni: prendersi il tempo per osservarle e riconoscerle è sempre una buona scelta.
Educazione al sensazionalismo: alleniamoci a riconoscere i titoli accattivanti e le notizie strutturate per generare indignazione. E poi stiamone alla larga.
Il gioco del commento facile è deleterio. Ancora una volta contiamo fino a 10 e respiriamo.
Elevare il dibattito pubblico: non c’è modo migliore per cambiare le cose. Meno impulsività, più consapevolezza, nuovi punti di vista.
Abbiamo un superpotere e lo sottovalutiamo: la scelta. Se vogliamo il giornalismo di qualità, sosteniamo il giornalismo di qualità. Equazione semplice.
In tutto questo pensare dei giorni scorsi ho fatto una promessa a me stessa: non smettere di credere nel giornalismo che costruisce e nelle persone. Non ci resta che restare uniti.
Ti leggo se vorrai scrivermi,
Assunta
Con Mariagrazia Villa, docente di etica della comunicazione e del giornalismo, abbiamo scritto “Inversione a U. Come il giornalismo costruttivo può cambiare la società” uscito lo scorso giugno per Do It Human Editori. Lo abbiamo dedicato a noi esseri umani coinvolti nell’informazione. Da qualunque parte stiamo: giornalisti o pubblico. Le cose si cambiano insieme.
Assunta, sai che forse è giunto il momento di dire e dirci che il giornalismo se non è costruttivo non è giornalismo? Sarà altre cose: sensazionalismo, semplicismo, spettacolo, approssimazione... Ma queste caratteristiche rappresentano la via breve del disimpegno e dell'irresponsabilità. Nulla a che vedere con una nobile professione di servizio alla collettività (costruttrice di civismo). Forza!