Se non ti si vede, non è colpa degli altri
La visibilità non arriva bussando. Si costruisce, una parola alla volta.
Ciao,
ti capita mai che una persona ti definisca con un’espressione che resta dentro di te e ti serve per riflettere?
È accaduto qualche anno fa. Era un aperitivo di lavoro in cui era presente il mio editore insieme ad altre persone. Tra loro un’imprenditrice con la quale non avevo mai condiviso molte parole ma che, evidentemente, osservava silenziosa. L’ho capito quando tenendo in mano il suo bicchiere di vino rosso mi ha guardata - occhi grandi ed espressivi - e mi ha detto: “tu sei un caterpillar gentile”.
Ho sorriso. Ti confesso che non l’ho presa benissimo sul momento. La parola caterpillar mi ha rimandato subito alla guerra e questo tipo di linguaggio non mi mette a mio agio. Ho sorriso e detto qualcosa del tipo “me lo tengo qui e ci ragiono”.
Ho capito che voleva essere un complimento da parte sua, ma non era tra quelli facilmente riconoscibili. Eppure mi è rimasto dentro. Forse perché quella frase portava in seno una verità che non avevo mai messo a fuoco.
Quell’espressione mi ha aiutata a capire un paio di cose: che si può andare avanti con forza, senza perdere delicatezza. Che la determinazione non ha bisogno di alzare la voce. E che si può costruire anche mentre si inciampa, purché si resti fedeli a ciò che si è.
“Caterpillar gentile” mi ha fatto pensare a tutte le volte in cui la tentazione di mollare è stata concreta. Non per mancanza di passione, ma per stanchezza. Per la fatica di scegliere ogni giorno la coerenza alla scorciatoia, la profondità all’apparenza, la relazione al risultato immediato.
Eppure, ogni volta che ho rallentato, non mi sono mai fermata. Perché ho capito che anche il passo più piccolo può aprire un varco. Che si può lasciare il segno, anche senza fare rumore. E che le cose fatte con cura non fanno clamore… ma restano. Esattamente come quel complimento.
Mi è tornato in mente quel momento in questi giorni mentre rispondevo alle domande di Giulia Bezzi durante il suo format DieciTredici: 10 minuti di diretta che puoi trovare su Linkedin o su YouTube. Ma anche mentre mi sono confrontata con giornalisti e giornaliste su quanto faremo il 9 maggio a Roma (sarà il Constructive Day e resta una manciata di posti, se lavori nell’informazione e vuoi esserci scrivimi).
Dalla frustrazione alla connessione
C’è un sentimento diffuso, spesso inespresso, che serpeggia tra chi prova ogni giorno a comunicare con autenticità: la frustrazione. Quella che nasce in noi nel vedere come contenuti superficiali corrono veloci mentre riflessioni più profonde arrancano.
Nasce spesso dalla fatica di scegliere la coerenza invece della scorciatoia, la profondità invece dell’immediatezza. Il silenzio che a volte segue parole scritte con cura e intenzione.
Nel caos digitale in cui ci muoviamo — tra post-spintoni, DM predatori, contenuti tutti uguali vestiti da performance — c’è chi continua a credere nella forza dei contenuti che non gridano, ma lasciano traccia. Non è questione di essere notati da tutti. È, piuttosto, il desiderio di essere utili, rilevanti, sinceri.
Non è una corsa a chi pubblica di più. È una chiamata a chi ha il coraggio di sostenere una voce autentica, anche se non sempre acclamata.
La costruzione vera non si misura in numero di interazioni ma in legami, coerenza, credibilità.
E tutto questo non nasce da un DM copia-incolla o da un carosello o un reel in tendenza. Nasce da una volontà profonda di dare senso a ciò che si condivide. Di esserci per aggiungere valore. Di comunicare non per ottenere, ma per contribuire.
Provo a immaginare.
Una domenica sera, tardi. Il telefono illumina il viso stanco mentre si scorre LinkedIn e Instagram senza una direzione.
Scorrono anche le vite degli altri: il collega freelance celebrato da tutti, la giornalista che colleziona like con l’ultimo articolo brillante, l’influencer che sembra avere opportunità a non finire. E quel pizzico di disagio allo stomaco — chiamiamolo pure invidia, anche se fa male ammetterlo — si fa sentire.
Perché loro sì e io no?
È un sentimento umano. I social, lo sappiamo, sono maestri nel mostrarci il meglio della vita altrui.
Quel meglio confezionato, filtrato, potenziato. E noi, spesso, ci confrontiamo senza accorgercene.
Si chiama confronto sociale: valutiamo noi stessi osservando gli altri. Online, quel confronto è quasi sempre ingiusto: la nostra fatica contro il loro palcoscenico.
Lo scrolling passivo è associato a un calo del benessere emotivo e all’insorgere di stati come l’invidia o la percezione di inadeguatezza.
Quella sera, immersi in un flusso di pensieri poco gentili verso sé stessi, ci si può fermare.
Posare il telefono. Farsi una domanda semplice ma tagliente:
Cosa sto facendo io, davvero, per ottenere quelle e altre opportunità?
Non per giudicarsi. Non per colpevolizzarsi.
Ma per cambiare prospettiva. Per spostare l’energia dal confronto alla costruzione.
Perché è solo lì che nasce il movimento.
Invece di consumarsi nell’invidia silenziosa verso chi ha più visibilità, si può rivolgere lo sguardo verso di sé.
Cosa posso fare di diverso? È una domanda scomoda ma necessaria.
Chi lavora nella comunicazione lo sa bene: quel momento può segnare una svolta.
Un piccolo risveglio. La scintilla di un’agire nuovo. Questo non significa che si tratta di un processo semplice.
Dal lamento all’azione: rompere la passività
Nel mio percorso digitale ho imparato una cosa fondamentale: lamentarsi della visibilità altrui non porta alcun frutto. Quante volte ho sentito colleghi dire con rassegnazione: “Eh, ormai sui social si notano solo i soliti, è tutto un gioco di algoritmo”. Anch’io l’ho pensato, in momenti di sconforto, prima di comprendere che la chiave ero solo e soltanto io. Quando è emersa una vocina interiore che mi chiedeva conto: sto davvero facendo il possibile? La risposta era spesso no. Mi stavo accontentando di guardare gli altri giocare la partita, invece di scendere in campo.
Così ho deciso di cambiare approccio: dal disagio all’ispirazione, dalla passività all’azione. Ho iniziato ad osservare quei contenuti e i loro autori e autrici con sguardo curioso: cosa fanno di concreto, ogni giorno, per costruire la loro presenza online? Mi sono accorta che dietro la visibilità c’era raramente un colpo di fortuna o solo abilità con l’algoritmo. C’erano piuttosto costanza, impegno. (Che fosse questo il senso del caterpillar?).
Capitale sociale.
Le relazioni e la reputazione che costruiamo sono un capitale intangibile ma preziosissimo, che può aprire porte non immaginate. In effetti, la reputazione online oggi funziona come una forma di capitale sociale digitale, che si accumula investendo tempo nelle relazioni e nella condivisione di valore. Costruire una buona reputazione significa instaurare fiducia – un bene raro nell’era delle interazioni mordi-e-fuggi – e questa fiducia è spesso ciò che genera opportunità concrete.
Relazioni autentiche vs. connessioni superficiali
Con questa nuova prospettiva, ho fatto un altro esame di coscienza e un lavoro profondo dentro di me per riconoscermi e ritrovare i miei valori. Dapprima mi sono ricordata di una lezione fondamentale: le persone non amano sentirsi un target, un numero su cui fare click. Io per prima detesto quando qualcuno mi approccia online solo per vendermi qualcosa, senza nemmeno prendersi il disturbo di conoscermi un po’. Ho eliminato l’idea di “networking” come attività per collezionare contatti e ho iniziato a pensarlo come possibilità di costruire connessioni autentiche professionali. Ho iniziato a scegliere l’ascolto attraverso ciò che le persone raccontano di sé.
Questo approccio richiede più tempo e non dà risultati immediati, non esiste la gratificazione istantanea delle connessioni superficiali. In compenso getta semi per relazioni vere. Ed è qualcosa di davvero speciale quando dal contenuto si passa alla relazione privata, generando anche progetti, confronti costruttivi, dialoghi tra esseri umani.
La relazione prima dell’opportunità e non viceversa.
La forza dei legami deboli e delle storie personali
Negli anni ‘70 il sociologo Mark Granovetter scoprì che oltre l’83% delle persone trovava un nuovo impiego grazie a conoscenze occasionali, quelli che lui ha definito i legami deboli, piuttosto che tramite amici stretti o parenti. Le grandi occasioni non arrivano sempre dalle cerchie intime; più spesso scaturiscono da contatti che frequentiamo poco, ma che estendono il nostro raggio sociale. Granovetter concluse che, per scoprire nuove opportunità professionali, i legami deboli sono persino più importanti delle relazioni strette, e vanno coltivati attivamente creando occasioni di contatto. (Qui trovi il suo libro).
Ogni contenuto di valore che condividiamo è un piccolo seme piantato. Non possiamo sapere quale seme germoglierà né quando, ma se non piantiamo nulla è certo che non raccoglieremo frutti. La continuità nella condivisione è fondamentale. Significa presentarsi regolarmente al proprio pubblico con onestà e costanza, mostrando chi siamo e in cosa crediamo. È un atto di fiducia verso gli altri e verso noi stessi. Richiede coraggio, perché mettere la faccia e raccontare la propria storia personale può esporci al giudizio. Ma è anche un magnete per chi risuona con noi: nel tempo, attireremo esattamente quelle persone che cercano proprio i nostri valori e la nostra visione.
Condividere parti di sé in modo sincero crea connessione emotiva, esiste esperienza più bella di questa?
Se raccontiamo le sfide che abbiamo superato, le lezioni che abbiamo imparato, se parliamo delle nostre passioni con genuinità, chi legge non vede più uno schermo: vede noi. È come se ciascun post costruisse un piccolo ponte verso gli altri. E su quei ponti, un passo alla volta, possono transitare occasioni reali.
Responsabilità e coraggio di raccontarsi
Qui entra in gioco la responsabilità personale. So bene quanto sia facile dare la colpa ai fattori esterni – l’algoritmo, il mercato saturo, “quelli famosi che ormai hanno vita facile”. Ma permettimi un pizzico di provocazione gentile: queste sono scuse. Si finisce per giustificare la nostra scarsa visibilità accusando il contesto ma non stiamo facendo altro che cercare alibi per la nostra paura di esporci..
Tra le scuse più gettonate sentite nell’ultimo periodo:
se parlo troppo di me sembro autoreferenziale (dipende da come ne parli!)
non ho tempo (quindi non hai ancora la comunicazione digitale nella tua agenda?!)
non so cosa dire (su questo torno qui sotto).
Sto scrivendo questa newsletter nel pomeriggio del Primo Maggio. Mi arriva un messaggio WhatsApp da una persona a cui tengo e con la quale condivido percorsi e riflessioni di vita.
Mi soffermo su queste parole, hanno senso mentre scrivo:
Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma.
Cesare Pavese
Lasciamoci attivare la curiosità da ciò che leggiamo e ascoltiamo. Questo è l’invito. Anche se, lo so, è più rassicurante pensare che “tanto non funziona, è inutile provarci”, perché così evitiamo il rischio del fallimento e del giudizio. Ma, ed è bene saperlo, è anche il modo più rapido per auto-sabotarci e rimanere fermi. A lamentarci, ovviamente.
La verità è che nessuno costruirà al posto nostro le relazioni e le opportunità che desideriamo. Dobbiamo assumerci la responsabilità di agire. Significa uscire dalla zona confortevole dello scroll passivo e dall’ironia cinica su chi ce l’ha fatta, e iniziare a fare nel nostro piccolo. Non importa se all’inizio la nostra voce sembra perdersi nel vuoto digitale, se i primi post non ricevono feedback o se le prime connessioni non portano subito risultati. Ogni conversazione avviata con sincerità, ogni articolo o video in cui condividiamo una nostra idea autentica, è un mattone che aggiungiamo al nostro ponte verso gli altri.
Ognuno di noi fa quello che può, con quello che ha, nel momento in cui si trova.
Chi si limita a invidiare i traguardi altrui vede solo la punta dell’iceberg. Non vede le ore spese a coltivare rapporti, a scrivere contenuti ovunque e a qualunque ora, a rispondere con cortesia anche quando si sarebbe tentati di ignorare, a studiare. Studiare tanto. Non vede la storia dietro a quella visibilità.
E chi raggiunge traguardi, non ha più tempo a disposizione. Ha semplicemente scelto di fare e trova il modo. Non è tanto quella storia del volere è potere a cui non credo molto perché ci sono troppe variabili, ma è più un “ho scelto e lo faccio”. Il tempo impiegato a lamentarsi dei successi altrui è spesso più significativo di quello investito nel nostro fare.
Provo a trarre delle conclusioni
Smettiamo di aspettare che la fortuna o l’algoritmo ci notino. Iniziamo noi a fare caso ai pensieri già pensati e trasformiamoli.
Se è vero, come credo, che l’amore ci salverà allora è tempo di dedicarci al lavoro interiore per comprendere che, in questo mondo qui, c’è posto per ognuno di noi.
Il giorno in cui impariamo a gioire per e con gli altri sentiremo un senso di leggerezza impagabile. E diventeremo autenticamente irresistibili per chi vorrà conoscerci.
Proviamoci almeno,
Assunta
Buongiorno Assunta, ti ho conosciuta durante un workshop sulla gratitudine all'uscita del DIARIO DELLA GRATITUDINE.
Mi ha colpita molto questo tuo scritto perché arriva proprio in un momento di mio di difficoltà dove mi sono spesso chiesta: "che cosa faccio io per sentirmi meglio?"...perché è più facile dare la responsabilità agli altri, che assumersela guardandosi nel profondo (ammettendo che forse sto aspettando una bacchetta magica)!
Ho letto la tua riflessione che è arrivata come "uno schiaffo gentile" :-)! Non so cosa cambierà da oggi, ma ti ringrazio di cuore perché, come tanti anni fa mi hai fatto capire di quante cose buone della mia vita dovessi essere grata, mi hai dato una spinta a rimettermi in gioco...un passo alla volta. Grazie di cuore
Grazie Assunta per le tue riflessioni ispiranti. Un caro saluto
Daniela