Eccoci, buongiorno!
Sono stata nella mia università qualche giorno fa. Stavo andando a un pranzo di lavoro in centro e sono passata vicino alla Statale di Milano, un luogo di una bellezza incredibile che ti consiglio di visitare se non lo hai ancora fatto. Lì, mi sono laureata in Lingue e Letterature Straniere. E ogni volta che ci passo sento forte il desiderio di entrare, passeggiare tra i chiostri e, se ho tempo, sedermi proprio su quel muretto dove passavo molte ore. Con i miei compagni e le mie compagne. A volte da sola per studiare.
Quante cose potrebbe raccontare di me quel luogo. Dei miei vent’anni. Di quando ho iniziato a fare la giornalista. Dei miei sogni e delle mie paure.
Avevo 19 anni.
Sala d’attesa dei Carabinieri. “La cronaca nera è la palestra migliore per imparare il mestiere”, mi dicevano. E chi ero io, giovane studentessa universitaria pronta alla gavetta, per dire che ci stavo scomoda su quelle sedie sporche?
Mi sembrava già tantissimo aver trovato un giornale locale che mi permettesse di provarci.
Il senso era stare lì e aspettare che entrasse qualcuno ferito, in lacrime, disperato, spaventato. E con cinismo e determinazione portare a casa almeno una storia.
Mi ci vedi? Io ancora oggi no.
E infatti è durato molto poco. Non credo di essere arrivata ai 6 mesi.
Mi hanno messa alla cultura e alla cronaca rosa. Molto meglio. Ma avevo sicuramente imparato qualcosa della professione: per esempio che la cronaca nera non faceva per me.
Ho sorriso, seduta su quel muretto della Statale qualche giorno fa. Oggi non direi mai a una persona che inizia questo viaggio professionale di partire dalla cronaca nera o da qualunque altro ambito. Gli direi “parti da te, da chi sei e da chi vuoi essere. E sperimenta”. Non è retorica, è una necessità per stare dentro la professione.
Il tema di oggi è delicato, ti avviso.
Quindi prima di partire un po’ info:
Il 12 febbraio alle 19.30 sono da Ècate: facciamo un workshop gratuito sulla gratitudine. Le presentazioni classiche non piacciono al mio editore Do it Human e nemmeno a me perché parlano troppo di chi scrive e poco di chi legge, quindi abbiamo preferito questo evento in occasione dell’uscita del Diario Della Gratitudine. Ci si prenota qui.
Se sei un giornalista o una giornalista il 26 febbraio dalle 9.30 alle 12.30 puoi partecipare al corso “Giornalismo e Salute: mi sento meglio con empatia e gentilezza”. Lo terrò con Barbara Reverberi, è in streaming e lo trovi su piattaforma www.formazionegiornalisti.it con 3 crediti.
Sarò docente a un corso organizzato da DoppioQuarto che si svolge in 4 incontri dal 22 febbraio al 15 marzo. Il titolo è “La voce del gusto e dei luoghi”, si parla di comunicazione in ambito enogastronomico e turistico. La mia lezione è sulla narrazione costruttiva. Ci sono ancora posti, trovi le info qui.
Io non ci sto
Il tema delicato è Fabrizio Corona. Immagino non ti sia sfuggito il flusso di notizie lanciate e riprese dai media di ogni genere sui Ferragnez, sul suo progetto Falsissimo, sulle sue dichiarazioni riprese qua e là. Bene, non parleremo di questo. O almeno non direttamente.
Ancora non ho ben capito se c’è un modo etico di occuparsi di gossip, fenomeno che affascina noi esseri umani sin dall’antichità (anche i Greci lo amavano!) e che in qualche modo contribuisce alla condivisione e all’ilarità. Uno studio pubblicato su Royal Society attribuisce al gossip la definizione di “collante sociale”. E di certo tutti noi abbiamo ceduto - e cediamo - al suo essere così intrigante e curioso. Inutile negarlo.
Quello che fa Fabrizio Corona, però, non è gossip etico. Questa è una consapevolezza che abbiamo in molti e che leggo anche tra le righe dei commenti ai contenuti che lo riguardano. Cose del tipo “può non piacere ma se non ci fosse lui non sapremmo certe cose”, “di sicuro non è una bella persona ma almeno smaschera le schifezze”. E via così.
E no, non è nemmeno questo il punto del mio ragionamento. Che ci sia qualcuno che nonostante tutto lo segua e lo sostenga è evidente. Come il fatto che lui sappia come far leva sulle dinamiche istintive di noi esseri umani. E che riesca a crearci un business.
Fino a qui tutto lineare. Non bello, non costruttivo, ma non fa una piega.
Dai fallo anche tu che funziona!
Non ci sto quando sento dire che Fabrizio Corona è un modello di comunicatore efficace.
Non ci sto quando leggo che ogni persona che lavora nella comunicazione può imparare da lui.
Non ci sto quando intercetto elenchi delle scelte da fare per comunicare e arricchirsi come Fabrizio Corona.
E non ci sto quando definiscono Corona un giornalista. Non lo è. (E a questo proposito quando hai un dubbio vai qui e cerca nome e cognome).
Un bravo comunicatore riconosce il suo potere e lo usa con responsabilità. Non cerca la visibilità a tutti i costi e rispetta sempre la dignità delle persone. Il modello Corona (sì, è stato definito così!) fa leva sulla spettacolarizzazione del dolore, premia l’aggressività, è brutale.
Gli ho sentito dire delle cose che davvero mi hanno fatto venire i brividi.
Lui è pericoloso, il suo modo di lavorare lo è. Le parole che usa lo sono.
I meme, i caroselli sul modello Corona, gli articoli dedicati dai media lo sono.
Ma la cosa più pericolosa di tutte è normalizzare il metodo e raccontare la sua replicabilità.
È come dire “dai fallo anche tu che funziona!”.
Ma quanto male fa? Ci pensi?
Ci sono tre cose che mi girano in testa in questi giorni:
questa comunicazione non riguarda solo le persone coinvolte ma anche i familiari, minori inclusi
ognuno di noi ha la sua storia, questa comunicazione così brutale e aggressiva in che tipo di vita entra? Come viene gestita dal pubblico? Cosa genera nelle persone?
ciò che viene pubblicato in rete non sparisce. È indelebile.
Queste mie riflessioni esulano dai fatti, non giustificano azioni personali e nemmeno le condannano. Sono pensieri che mi girano in testa su come stiamo comunicando e su cosa scegliamo di sostenere.
«Esiste un prezzo per l’umiliazione pubblica e con la rete si è amplificato»
Monica Lewinsky
Non so quanti anni hai e se conosci la storia di Monica Lewinsky. Una ragazza di 22 anni che, nel 1998, ha commesso l’errore di innamorarsi del suo capo. Solo che lui era Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti d’America. Ho dei ricordi di immagini che mi stringevano lo stomaco e di audio che facevano venire i brividi ma che mi facevano anche pensare alle telefonate intime con le mie amiche. Quelle fatte di confessioni e commenti superficiali da adolescenti. A quel tempo mi è capitato di immaginare la vita di questa ragazza: le sue serate in camera affossata nella vergogna.
Mi sono fermata a immaginare i momenti che può aver passato la giovane Monica. Mi sono immaginata lei mentre ascoltava gli audio delle sue telefonate – di cui lei stessa si stava vergognando – passate alla tv, in radio e sui primi media online. Me la sono immaginata a letto la sera o davanti allo specchio del bagno. Me la sono immaginata distrutta da un errore a 22 anni.
Distrutta dagli effetti di quell’errore.
E se mi trovassi io in quella stessa situazione? Chiaro che l’aveva combinata grossa e questo non si discute. Ma era stata anche tradita dall’amica a cui aveva rivelato dettagli intimi e che forse qualcuno, i media per l’esattezza, stavano esagerando con lei. Non era stato già abbastanza quel che accadeva? La vita, non le stava già dando la lezione da cui apprendere? Poteva bastare la storia.
Qualche anno fa mi sono imbattuta su Youtube nel Ted di Monica Lewinsky tenuto nel 2015. Si racconta aprendosi e mostrandosi vulnerabile e matura. A colpirmi nel profondo è lo stato d’animo di questa donna durante la conferenza. Monica esordisce ricordandoci che il famoso Sexgate, così i media di tutto il mondo hanno nominato lo scandalo, è accaduto nel 1998, all’inizio della rivoluzione digitale. Per la prima volta le notizie arrivavano online amplificandone l’effetto.
« Sono stata il paziente zero a perdere la sua reputazione globale quasi istantaneamente».
La stampa e l’opinione pubblica hanno scagliato pietre virali che non sono mai più tornate indietro. Ma alle spalle di tutto questo c’era una persona. Una donna in carne e ossa. Una donna con un’anima. L’unico motivo per cui lei oggi è ancora qui tra noi, racconta nel video, è perché sua mamma ha avuto la forza di starle vicina e di non staccarsi un attimo da lei: di notte le dormiva accanto e le faceva fare la doccia con la porta aperta.
Aveva paura di perderla, quella figlia.
Di perderla uccisa dall’umiliazione globale.
Cosa fa oggi Monica Lewinsky?
È tornata in pubblico nel 2014 dopo anni di assenza totale perché ha sentito forte la sua missione: non permettere che altri ragazzi possano vivere quello che ha vissuto lei e, soprattutto, non lasciare che questi possano arrivare a gesti estremi perché umiliati pubblicamente sui social. Facendo tesoro di ciò che ha passato, vuole essere d’aiuto. Lo sta facendo sensibilizzando l’opinione pubblica e sostenendo diverse associazioni.
Il fatto che i tempi siano cambiati, e che noi siamo anche più abituati a queste dinamiche, non può giustificarne l’esistenza.
A loro non interessa cosa scrivi
A permettere tutto questo, devo dirtelo, siamo noi. Anche se non andiamo a cercare il contenuto, lui ci raggiunge. E quando accade rischiamo di restare intrappolati dalla curiosità. Niente di male, è umano. Quello che però vorrei lasciarti come punto di riflessione in chiusura riguarda i commenti e le condivisioni.
Le interazioni che ho intercettato spesso riportavano disgusto, fastidio, rifiuto. Peccato che a livello di crescita della viralità del contenuto queste emozioni più che lecite valgono quanto gli applausi e gli ancora.
Questo è il punto.
Assunta
Nella Dire Fare Ringraziare Academy lavoriamo sulla comunicazione empatica.
Ti iscrivi, entri e ti metti al lavoro con i tuoi tempi e il tuo ritmo.
Ho visto qualche tempo fa il TED Talk di cui parli e, per la prima volta volta mi sono messa nei panni di quella ragazza, a cui hanno strappato i sogni e l'entusiamo in modo troppo brusco.
Avevo una decina d'anni quando avvenne il fatto e, anche se sapevo cosa stava succedendo (i miei genitori me lo avevano spiegato, sebbene in una forma adatta a una ragazzina di quell'età) non mi pare di aver mai provato empatia per Lewinsky: non ne comprendevo il comportamento e forse non mi ero mai posta il problema della sua sofferenza. Ma sentirla parlare di quell'errore che le ha cambiato la vita mi ha devastata.
Siamo essere fragili e, come amiamo ripetere spesso sui social, ognuno di noi combatte una battaglia di cui gli altri non sanno niente. Poco carino aggiungere dolore al dolore.
Grande Assunta. Sono con te. Concordo su tutto.