La Boston Symphony Orchestra ha introdotto per la prima volta il Blind Hiring nel 1952. A quel tempo la maggior parte delle orchestre sinfoniche era composta da uomini bianchi. Le audizioni alla cieca - blind hiring - volevano favorire la diversificazione rimuovendo i dettagli dell’identità individuale che non avessero nulla a che vedere con la performance. Negli anni Settanta altre orchestre seguirono l’esempio dell’orchestra di Boston. A novembre 2022 ha fatto notizia il fatto che la New York Philarmonic abbia superato la parità con una composizione di 45 donne e 44 uomini.
Nel 2012 nella Silicon Valley, in California, Kedar Iyer ha fondato la GapJumpers, società di software basata sullo stesso principio delle audizioni alla cieca. Avendo notato che programmatori e programmatrici venivano scartati in fase di selezione, per dettagli come il percorso di studi troppo breve, ha progettato questo software. Venivano nascosti i nomi, i volti, le informazioni personali nella fase iniziale di selezione. Dalla sua nascita GapJumpers è diventato un must per molte aziende. Ci sono dati che dicono che il suo utilizzo possa aumentare del 40% le possibilità di un colloquio di lavoro per donne e minoranze. Poi, certo, al colloquio si gioca su altri schemi.
In Italia c’è TakeFlight, start-up che si occupa di profilazione. I suoi questionari non chiedono dati sensibili e si basano sulle affermazioni che risultano essere meno invasive rispetto alle domande. L’unico controllo effettuato è sulla coerenza delle risposte. (Ho intervistato la CEO Carmen Dal Monte su News48).
Questi metodi di selezione appaiono come soluzioni che aiutano a escludere i bias che abbiamo interiorizzato. Viene ritenuto un buon punto di partenza per favorire l’inclusione.
Anche di questo abbiamo parlato ieri durante il convegno “Gender Pay Gap: punti di vista dal mondo delle libere professioni” che ho moderato in Regione Lombardia. Tra i relatori professionisti e professioniste di diversi ambiti: avvocatura, ambito notarile, il mondo dei commercialisti, rappresentanti dello sport e del giornalismo, una psicologa. E poi le istituzioni con la presenza delle Consigliere di Parità.
L’incontro te lo metto qui. Prenditi il tempo per ascoltarlo perché è una delle poche volte in cui non sono state dette banalità e sono state aperte voragini di riflessione. Dei pugni nello stomaco che servono a risvegliare.
Perché se è vero che se ne parla e che qualcosa si fa, siamo ancora in alto mare. Lo dicono i dati: l’Italia è all’87mo posto su 146 paesi nel mondo per divario di genere. Considerando l’Unione Europea, dietro di noi ci sono solo Ungheria, Repubblica Ceca e Turchia.
Nella sua newsletter di oggi Giulia Bezzi, da sempre impegnata su questo tema, cita alcuni dati di cui è bene avere consapevolezza. Non te li riporto qui: leggili tu.
Stiamo nella voragine e riflettiamo
L’incontro di ieri voleva essere una riflessione sulla disparità salariale tra uomini e donne nella libera professione. Inevitabilmente - nelle 3 ore di lavori - sono emersi dati e pensieri che riguardano diverse sfumature del tema più ampio. Alcune già note e su cui si ragiona da tempo: come la certezza che il Pil dell’Italia aumenterebbe se il tasso di occupazione delle donne aumentasse (secondo l’Istituto Europeo per la Parità di Genere (Eige) salirebbe del 12% se il tasso fosse al pari di quello maschile entro il 2050).
Su quello sgabello, ieri, ho spostato lo sguardo dalle voci al tavolo, alla platea e alla Milano uggiosa che si intravedeva dal Belvedere di Palazzo Lombardia. E riflettevo, registravo le parole, prendevo appunti.
Ci sono alcuni passaggi che mi sono rimasti dentro:
cambiare il linguaggio aiuta a cambiare i processi culturali: se continuiamo a parlare di gender gap in Italia rischiamo di non mettere a terra il problema. Lo ha evidenziato Alessandra Mascellaro, notaia, Consigliera Nazionale del Notariato con delega alle Pari Opportunità. Prova a fare questo esercizio veloce: pronuncia a voce “gender gap” e poi “disparità salariale di genere”. Cambia tutto: per quanto si possa conoscere la lingua inglese l’effetto di quelle parole nella propria lingua madre ne modifica percezione e significato. Gli inglesismi semplificano ma non necessariamente vanno in profondità.
E sempre a proposito di espressioni linguiste, Federica Tucci, Avvocata, Presidentessa della Rete dei CPO Ordine degli Avvocati Lombardi ci ha proposto una riflessione: abbiamo l’abitudine di parlare di parità come di una sfida, di un tema complesso, di un obiettivo a lunghissimo termine. Parole che ci rimandano all’idea di fatica: e il cervello per sua natura rifugge. Proviamo, invece, a dire: la parità di genere è vantaggiosa. Se mi leggi da un po’ sai quanto io sia attenta all’uso delle parole: associare l’aggettivo “vantaggiosa” a parità offre consapevolezza. E quindi una maggiore propensione all’azione.
C’è stato un momento significativo che ha aperto la voragine più profonda, ieri. È stato quando la prof.ssa Elisabetta Camussi, Associata di Psicologia Sociale all’Università Bicocca di Milano ci ha messo davanti a uno scenario nuovo. Due sono state le sue sollecitazioni potenti ( ma ne ha lanciate molte e le trovi nel video qui sopra). La prima quando ci ha detto che noi possiamo fare grandi passi individualmente ma se poi il contesto sociale non è pronto ci troveremo inevitabilmente in difficoltà. La seconda mi gira in testa in modo insistente. Te la riassumo così:
inutile provare a combattere stereotipi e pregiudizi, ci appartengono e non potranno mai sparire. Sono degli automatismi di cui nemmeno ci rendiamo conto. La vera sfida è lavorare sulla consapevolezza della loro esistenza per poterli gestire. Riconoscere e gestire.
Quest’ultimo passaggio cambia totalmente le regole del gioco: si alleggerisce la percezione di una lotta contro i mulini a vento.
E quindi, quelle audizioni alla cieca sono una buona idea?
Opinione personale: ho qualche riserva in merito. Appaiono come una buona notizia di quelle che rassicurano. Ci fanno credere che si sia fatto qualcosa di concreto. La domanda numero uno che mi faccio, e ti faccio, è :
per farmi scegliere devo nascondermi?
La seconda domanda è:
quel sipario - tendone o schermo che sia - che nasconde la mia identità non sta forse evidenziando l’esistenza di un problema non risolto?
È un po’ come l’ampio discorso sulla schwa, gli asterischi, le chiocciole e vari altri artifici linguistici utilizzati per comunicare in modo inclusivo. Hanno l’aria di essere un muro contro cui si sbatte ogni volta: lì per dirci “ehi, c’è un problema ma io voglio accoglierti”.
Ma l’accoglienza non dovrebbe essere l’opposto dell’imbarazzo? Non dovrebbe semplicemente fluire?
È come mettere una toppa colorata su un vestito strappato: attira l'attenzione sullo strappo, ma non lo ripara davvero. Allo stesso modo, nascondere l'identità non risolve il problema della discriminazione, lo evidenzia in modo silenzioso.
Dal 2020 ho preso un impegno con me stessa: utilizzare un linguaggio scritto e parlato inclusivo appellandomi alla straordinarietà della lingua italiana. A volte ci casco, rivedo, sistemo. E ogni volta imparo e ritrovo quegli automatismi di cui ha parlato la prof.ssa Camussi ieri. (A proposito, se trovi errori di questo tipo nei miei contenuti fammelo sapere, ci tengo!).
Ti lascio con dei numeri:
la Treccani conta 427mila vocaboli.
Il lessico comune è composto da circa 47mila vocaboli che sono conosciuti e adoperati da chi ha un’istruzione medio-alta, a prescindere dalla professione esercitata. Sono le parole che servono per rendere il discorso più vario, ricco e preciso.
Il Vocabolario di Base di Tullio De Mauro, però, ne conta 6.500: sono le parole con cui copriamo il 98% delle nostre conversazioni scritte e parlate (lo puoi scaricare qui). Con queste si può già fare un ottimo lavoro di inclusione senza artefici.
Circa 2000 sono le parole sufficienti a gestire bene la propria comunicazione: il lessico fondamentale di Luca Lorenzetti.
Quante parole totali conta l’italiano? 2milioni!
L'inclusione non è un atto di carità, è un atto di giustizia.
Possiamo farcela.
Assunta
24 ottobre PADOVA con Empatia Digitale
Alle 18 con Giulia Bezzi a chiacchierare di parole, comunicazione, digitale. L’ingresso è gratuito, i posti limitati e ci si iscrive qui.
Credo negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani.
Marco Mengoni