La questione è delicata e importante, quindi: buon venerdì sera e partiamo subito.
Abbiamo una strana abitudine nella nostra comunicazione: usiamo parole violente per dire che la violenza non ci piace. Una di quelle contraddizioni bizzarre dell’essere umano che riguarda ognuno di noi. Nessuno escluso.
In queste ultime settimane l’ho visto accadere così tante volte che la pelle del mio corpo è rimasta accapponata per molto tempo. Forse lo è ancora, a dire il vero.
I fatti di cronaca ci hanno offerto una serie di stimoli a cui abbiamo potuto reagire in differenti modi: il silenzio (sempre poco praticato per la verità), l’ascolto (scelta di pochissimi), la condivisione costruttiva (qualcosa si è letto qua e là), il flusso distruttivo e violento (ahimé ciò che è andato per la maggiore).
La rabbia fa certamente parte dell’essere umano e lungi da me giustificare qualunque genere di comportamento che leda la libertà e la vita altrui. Non è questo il punto. Mi soffermo su ciò che posso offrire io: qualche considerazione sull’uso della parola. E quella scritta in particolare, in questo caso.
Le parole evocano immagini.
Le immagini generano emozioni.
Le emozioni attivano comportamenti.
Questo accade nella mente di chi le usa e di chi le riceve. Un meccanismo così semplice da essere sottovalutato perché spesso questo accade alle cose semplici. Eppure sono quelle che determinano le differenze più grandi. Come in questo caso: le parole alterano il cervello, agiscono sul sistema nervoso.
Ma non voglio andare sugli aspetti scientifici. In questo contesto ti basti sapere che, per esempio, uno studio condotto dal Brookhaven National Laboratory ha mostrato come una parola a matrice negativa utilizzata in modo costante possa causare un’alterazione dei livelli ormonali e dei neurotrasmettitori. (Trovi lo studio completo qui)-
Restiamo, invece, in ambito comunicazione. Le parole ci identificano. Quelle che usiamo sono quelle che scegliamo. Ed è per questo che dicono molto di noi. E lo fanno in modo sincero soprattutto quando ciò che ci accade intorno solleva i nostri istinti primordiali e ci spinge a dare voce a ciò che proviamo. Senza esserci presi il tempo per valutare e fare scelte migliori. Sono i casi in cui forse occorre il silenzio: quello che ci fa stare da parte per elaborare e poi tornare. E farlo meglio.
Usciamo dalla pigrizia linguistica. E anche dal “qualunquismo linguistico” di cui parla Naomi Baron. Smettiamo di utilizzare la prima parola che ci salta in mente senza chiederci da dove arriva. Un mix di consapevolezza, cura e amore per le parole. E l’effetto cambia totalmente.
“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.
Italo Calvino
Non ho la soluzione. La ricetta. Sai che non le do mai.
Non mi va nemmeno di riportare qui parole che ho letto in queste settimane a proposito dei fatti di cronaca che conosciamo. Non mi interessa la loro energia e so che puoi facilmente immaginare e riconoscere quali possano essere.
Ma rifletto e amo condividere quel che mi balza nella mente e nel cuore. Sperando possa aprire nuove riflessioni, se non altro. Credo sia giunto il tempo di innamorarsi delle parole con un profondo rispetto.
Le parole contano.
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Un libro
“Cara gentilezza ti scrivo” è il libro della giornalista Gaia Simonetti. Un libro in cui Daniele, 10 anni, scrive una lettera che invita la gentilezza a tornare nella nostra vita. Gaia è segretario Ussi Toscana e ambasciatrice di Costruiamo Gentilezza edito da “I libri di Mompracem”. Il testo è un confronto tra le generazioni, tra il mondo visto da un bambino, che ha ancora la speranza di ritrovare la gentilezza anche nei piccoli gesti, e la nonna, a cui, in segreto, leggerà la lettera. Il libro lo trovate qui.
Un articolo
Una delle necessità per raccontare un fatto di cronaca è il contesto. Donata Columbro, data journalist, ha scritto un articolo molto interessante su come si contano i femminicidi in Italia. Lo puoi leggere su Internazionale.
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