Ciao! Arrivo all’ora di pranzo oggi. Settimanina di quelle belle intense. Consiglio direttivo dell’Associazione Constructive Network appena nata, programmazione degli eventi delle prossime settimane e alcune call immersive. Nonostante sia la fine di giugno c’è ancora una bella energia propositiva.
E a proposito di questo. Il 5 luglio sono a Loreto, nelle Marche, per un incontro sul giornalismo costruttivo. Sono nella giuria del premio Parole in Costruzione e in quella occasione diamo il premio a uno dei 48 articoli che abbiamo ricevuto. Me li sono letti tutti ed è stato un viaggio nelle storie incredibile. Ti lascio la locandina se sei in zona:
Ma visto che la prossima settimana siamo già a luglio, inizio a dirti che il 19 sono a Cattolica per un Festival letterario: porto il mio Diario della Gratitudine e ne parlo con la mia amica, socia di network e giornalista meravigliosa Isa Grassano. Ma ci sono altri autori e autrici di grande spessore. Siamo in un lido, quasi piedi in sabbia e il mare che ci guarda. Ti lascio la locandina anche di questo evento:
E ora entriamo nella newsletter di oggi. Aspetto ogni anno questo periodo per fare il punto della situazione sull’informazione.
Quel 40% che fa riflettere
Arriva l’ultima settimana di giugno e chi si occupa di informazione è immerso in un documento che aspettiamo con curiosità. Parlo del Reuters Institute Digital News Report 2025. Un documento corposo che fotografa la situazione dell’informazione nel mondo. E poi Paese per Paese.
40% è il dato di partenza. Si riferisce al livello medio di fiducia nelle notizie nei vari Paesi. Dato stabile da tempo, senza variazioni da tre anni. E questo merita alcune riflessioni di contesto:
dentro questa costanza convivono Paesi che guadagnano terreno (Finlandia, Norvegia, talvolta Spagna) e altri che continuano a scivolare (Regno Unito, Germania, Grecia).
Nei contesti dove il servizio pubblico è forte, regolato e percepito come indipendente (Nord Europa), la fiducia resta alta o si rigenera. Dove la proprietà è unica o politicamente vicina al potere, la fiducia ristagna o cala. Non è solo questione di contenuti, ma di architettura dell’offerta.
Nigeria (68 %) e Kenya (65 %) mostrano livelli di fiducia sorprendentemente alti che falsano un po’ quel dato globale. Ma ricordiamo che parliamo di Paesi con libertà di stampa limitata. Segno che la fiducia può crescere anche in ambienti dove l’informazione non è del tutto libera, ma dove l’audience si identifica con poche fonti percepite come autorevoli.
Quel 40 %, quindi, non è un lago immobile: è la superficie di un mare dove correnti calde e fredde si incontrano. Guardare alle sfumature significa capire che ricostruire fiducia non passa da un intervento unico, ma da azioni diverse – istituzionali, editoriali, culturali – calibrate sulle caratteristiche specifiche di ciascun Paese, di ciascun pubblico e anche di ciascun tema.
Altro che pigrizia, è protezione
Ci sono giorni in cui l’attualità ci raggiunge come una pioggia fitta, incessante, capace di confondere i contorni delle cose fino a farci arretrare di un passo, forse due. Non abbandoniamo l’informazione per pigrizia: ci sottraiamo per non precipitare in un vortice di titoli allarmati, numeri impilati senza respiro, analisi che sembrano più accuse che spiegazioni. È nello spazio sospeso fra l’esigenza di sapere e il bisogno di conservare la nostra armonia che nasce la news avoidance, la scelta di silenziare il flusso, di chiudere la finestra sul mondo per tutelare una porzione di quiete interiore.
Sempre il 40%: quattro persone su dieci dichiarano di evitare talvolta o spesso le notizie. Dato in aumento rispetto al 29% del 2017 e pari al valore più alto mai registrato (insieme al 2024).
Ci sono due profili principali:
chi le evita in modo costante: sono persone con basso interesse per le notizie e di basso livello di istruzione.
Chi le evita in modo selettivo: coloro che cercano di proteggersi dal sovraccarico informativo evitando specifici temi o momenti di particolare stress.
Nel dettaglio le cose stanno così:
39%: le notizie hanno un impatto negativo sul mio umore
31%: sono esausto o esausta per la quantità di notizie
30%: c’è troppa copertura di conflitti e guerre
29%: c’è troppa copertura della politica
20%: non so cosa farmene di queste informazioni
18%: portano a discussioni che preferirei evitare
18%: non sento che siano rilevanti per la mia vita
9%: le notizie sono difficili da capire (salgono al 14% tra gli under 35)
Che succede qui da noi?
In Italia l’ecosistema mediatico è in trasformazione profonda. La stampa è in declino, la Tv continua a reggere, le piattaforme digitali dominano e qualcuno prova nuove strategie di sopravvivenza.
Vediamo meglio.
La televisione rappresenta ancora il 72% dei ricavi del settore dei media tradizionali. Il mercato resta concentrato: RAI, Mediaset e Sky insieme detengono il 70% dei ricavi TV. Cresce però l’impatto delle piattaforme di streaming: Netflix, DAZN, TIM, Amazon, Disney coprono quasi il 20% del mercato.
La stampa tradizionale continua a perdere lettori e rilevanza: solo Il Corriere della Sera e La Repubblica raggiungono almeno il 10% degli italiani settimanalmente. Per gli altri è più faticoso.
Il digitale si muove tra dominio delle piattaforme e nuovi esperimenti. Le piattaforme internazionali (Google, Meta, Netflix) assorbono l’85% dei ricavi pubblicitari digitali. Tra i brand digitali nativi, Fanpage guida il panorama online, seguita da testate come Il Post e Will Media, molto forti tra gli under 35. Cresce il ricorso a modelli di membership senza paywall (come Fanpage e Il Post), per diversificare le entrate mantenendo la portata pubblica.
Meriterebbe una newsletter a parte, e potrei anche pensarci, quel 9% del report che si riferisce agli italiani che pagano per accedere alle notizie online. Qui servirebbe un bagno di umiltà profondo da parte dei media per rendersi conto che non sarà proponendo il gossip, né le 3 S (sesso, soldi, sangue), né titoli click baiting che si porteranno le persone ad abbonarsi. O magari sì di istinto, ma poi non restano. In quelle sezioni serve l’approfondimento: qualcosa in più, che arricchisce, allena il pensiero critico, giustifica l’impegno economico seppur piccolo.
La situazione social media è questa: il 26% condivide le notizie tramite social network, messaggistica o e-mail. In Italia resta forte Facebook anche se la fiducia nelle notizie è del 36% mentre per altri contenuti è del 65%; segue Instagram con 22% di fiducia nelle news (in lieve crescita) e il 54% sul resto; WhatsApp con il suo 21% in calo e l’81% per quanto riguarda altri contenuti. TikTok è ancora lento a salire.
Tirando le somme. La fiducia nel sistema informativo resta fragile, in un contesto segnato da concentrazioni editoriali e scarso pluralismo.
Dove si annidano le soluzioni?
Eppure, proprio lì, nella tensione sottile tra distanza protettiva e desiderio di capire, si apre la possibilità di una domanda nuova:
che volto dovrebbe avere l’informazione per farci restare, senza consumarci?
I quattro temi principali emersi nel report sono coerenti nei vari paesi.
Imparzialità: la critica più frequente riguarda la percezione che i media promuovano una propria agenda invece di presentare i fatti in modo equilibrato. Molti ritengono che i giornalisti debbano mettere da parte le proprie opinioni personali. È stato spesso menzionato il desiderio di un linguaggio meno carico o sensazionalistico.
Accuratezza e veridicità: il pubblico desidera che i giornalisti si concentrino sui fatti, evitando speculazioni e che verifichino le informazioni prima di pubblicarle. Anche il fact-checking delle affermazioni false fatte da altri è stato indicato come un modo per migliorare la fiducia verso una testata.
Trasparenza: gli intervistati vorrebbero vedere più prove a sostegno delle affermazioni riportate, una maggiore chiarezza sulle fonti, e più trasparenza su finanziamenti e conflitti di interesse. Correzioni ben visibili quando si commettono errori e una distinzione più chiara tra notizie e opinioni sono elementi molto apprezzati.
Qualità dell’approfondimento: le persone auspicano che i giornalisti dedichino più tempo a indagare i potenti e ad approfondire i temi, piuttosto che inseguire gli algoritmi e i clic. L’assunzione di giornalisti specializzati in settori specifici è stata un’altra proposta ricorrente.
Imparzialità, accuratezza, trasparenza e approfondimento, quindi, sono le caratteristiche che il pubblico si aspetta dal giornalismo. E lo so che molti pensano che i media continuino a mancare questi obiettivi. Ma dalla mia esperienza personale di formazione e di incontro con colleghi e colleghe, posso confermare che sono valori che molti giornalisti vorrebbero offrire.
Il quadro italiano, nello specifico, racconta una transizione a due velocità: da un lato, vecchi modelli che si spengono, dall’altro esperimenti innovativi che cercano di restare umani anche nel digitale.
Per chi lavora nella narrazione e nella comunicazione, la sfida è chiara: non basta adattarsi al cambiamento, bisogna dargli un senso.
E in un contesto dove solo il 9% delle persone paga per informarsi, e metà della popolazione evita le notizie, diventa urgente una domanda:
che tipo di informazione vale ancora il tempo, l’attenzione e la fiducia delle persone?
Lasciamola aperta. Se hai delle proposte ti leggo,
Assunta