Il giornalismo è relazione. Ho perso il conto delle volte in cui ho sentito e detto io stessa questa frase durante la scorsa settimana. Sono state giornate intense, ricche di stimoli e di nuove illuminazioni. Questa è la ragione per cui oggi arrivo un po’ tardi rispetto al solito orario delle 7.07.
Non volevo andare di fretta.
Quello che leggerai fra poco è il frutto dell’incontro di formazione che ho tenuto insieme a colleghi e colleghe del network a Bologna. Abbiamo unito due mondi solo apparentemente distanti: il giornalismo e il counseling.

Il risultato? Dopo il primo scetticismo più che lecito, l’accoglienza è stata speciale.
Prima di scriverti di questo, però, hai notato la novità? Ho deciso di introdurre la newsletter del venerdì con un audio. La voce crea calore, non trovi?
Se dovessi pensare al motivo per cui a un certo punto il giornalismo è andato alla deriva, credo di poter dire con tutta onestà che è accaduto quando il mondo digitale è diventato parte della nostra vita.
No, non è colpa della rete. Non lo direi mai. Ma di certo ha smosso le carte sul tavolo e fatto emergere tutte le debolezze della professione giornalistica.
Se prima eravamo gli unici detentori delle notizie, ora non lo siamo più.
Se potevamo permetterci di stare beatamente su un piedistallo, ora non possiamo più farlo.
Se potevamo rifugiarci nel nostro cinismo, ora non regge più.
Il digitale, che personalmente considero anche come grande opportunità, ci ha proposto una sfida: a noi coglierla o meno. Chi l’ha colta sta funzionando, chi tentenna resta a galla, chi l’ha rifiutata a prescindere sta crollando.
Le cose stanno davvero così.
Quindi ascolto, empatia, relazione sono concetti e abitudini che non possono più essere evitate
Il giornalismo vive di storie. E le storie sono abitate da persone. Avvicinarsi all’idea dell’ascolto attivo promosso dal counseling è diventato una necessità. Almeno se si vuole abbracciare la strada del giornalismo costruttivo. Le sfumature si colgono nell’ascolto attento che alimenta la relazione.
Durante l’incontro a Bologna, Mariagrazia Villa, docente di etica dei media e co-autrice con me di “Inversione a U. Come il giornalismo costruttivo può cambiare la società” ha detto:
“Quando entriamo in relazione con qualcuno, quello che nasce è costruito insieme”.
E poi, sempre Mariagrazia ha aggiunto:
“L’informazione crea ponti tra realtà diverse e può aiutare nella costruzione di una società più empatica”.
Ci sono due momenti che mi fanno stringere lo stomaco, ancora.
Il primo è accaduto durante la pandemia. Più o meno all’inizio. Un giorno ricevo una mail da una ragazza che mi scrive:
"Assunta aiutami, non so più cosa fare. Mio papà 80enne sta male perché è convinto di dover morire di Covid. Cosa posso dirgli per calmarlo?”
Anche solo scriverlo mi genera quella stretta allo stomaco. In quei giorni i titolo dei giornali erano tutti più o meno uguali. Il messaggio: “tanto muoiono solo gli anziani”. Come un mantra, ripetuto a ogni attimo e riproposto ancora e ancora.
Almeno fino a quando non si è capito di più.
Il secondo momento coinvolge la conversazione con due psicoterapeuti e una psicologa. Da loro ho sentito, con parole più o meno simili, questo concetto: “l’informazione è entrata nella stanza della terapia”. Stomaco contratto! Ancora adesso.
Questo è quel che si dice avere un impatto sulla vita delle persone.
E poi c’è stata quella volta che…
«Ma noi giornalisti non dobbiamo rassicurare le persone o dare speranza!». Queste sono le parole che ha usato un collega giornalista durante un corso di formazione.
«E perché no?» ho risposto.
Il collega non ha detto nulla. Ha utilizzato il linguaggio non verbale lasciando l’aula mentre io stavo raccontando i principi del giornalismo costruttivo. È il rischio che si corre quando si propone una visione che va controcorrente rispetto a quanto ci viene proposto e chiesto. Se quel collega avesse aspettato ancora un po’, avrebbe scoperto che ciò di cui stavo parlando era il valore del giornalismo come servizio pubblico. Non qualcosa di nuovo, ma un invito a tornare alle origini della professione.
A proposito di questo, gli psicologi americani Steven F. Maier e Martin E. P. Seligman hanno definito il concetto di Helplessness (impotenza, in italiano), che prende forma quando un individuo affronta continuamente una situazione negativa e incontrollabile e smette di provare a cambiare le circostanze, anche quando ha la capacità di farlo. La percezione che non si possa controllare la situazione suscita essenzialmente una risposta passiva al danno che si sta verificando.
Per questo amo incredibilmente la citazione di David Bornstein, giornalista che ha co-ideato il giornalismo delle soluzioni:
“Le persone non cambiano semplicemente perché qualcuno gli fa notare i problemi. Cambiano se sanno che il cambiamento è possibile e se conoscono i modelli da seguire”
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha evidenziato come negli ultimi anni sia notevolmente cresciuto il dato che parla di problematiche legate alla salute mentale come ansia, depressione e stress. Alla luce di questi nuovi dati, è stato infatti avviato un piano attivo fino al 2030 per stimolare iniziativa di aiuto in questa direzione da parte di tutti i Paesi del mondo.
A quel collega, oggi, risponderei ancora più forte che sì, il giornalismo ha anche il ruolo di raccontare possibilità, azione, ispirazione.
Buon venerdì,
Assunta
“Inversione a U. Come il giornalismo costruttivo può cambiare la società” è il libro giusto per approfondire
Sono a Pordenone per la prima volta!
Domani, sabato 23 novembre alle 16.00 sono al Malnisio Science Festival. Di cosa parlerò? "Intelligenza artificiale e giornalismo costruttivo: la sfida è restare umani".
Le info le trovi qui.
Sei giornalista?
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