Ciao,
ti immagino, ora, nella lettura di questa newsletter. Sei al pc o sullo smartphone? Sorseggi un caffè o forse un tè? O magari è l’ora dell’aperitivo per te? Stai viaggiando su qualche mezzo o sei in un luogo caldo e accogliente?
Mentre ti scrivo sono a casa, alla mia scrivania. Avrei tante cose da raccontarti rispetto ai giorni che sto vivendo ma credo di voler condividere con te un pezzo della mia storia che ha a che fare con le domande.
Quanto era fastidioso, da piccoli, quel “non fare domande stupide”? Spero tu abbia avuto la fortuna di non sentirlo mai dire ma se non è così allora ti do il benvenuto nel team.
La storia che voglio raccontarti oggi parte da lontano. Abbi pazienza, cercherò di andare veloce senza tralasciare dettagli che hanno un senso per il messaggio di questa newsletter.
Avevo 19 anni
Ho capito di voler fare la giornalista durante il primo anno di Università. Facoltà di Lingue e Letterature Straniere alla Statale di Milano.
Fino ad allora, ricordo, di non avere mai avuto chiaro in mente quale professione svolgere. Durante gli anni della scuola elementare, agli adulti che mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo: «voglio scrivere, leggere, viaggiare e dire alle persone che il mondo è un posto bello in cui vivere».
Ho portato con me questa visione fino a che l’ho trasformata in una professione: il giornalismo.
Nessuno in famiglia aveva intrapreso questo percorso e trovo che questo sia stato un ulteriore motivo di crescita e di scoperta per me. La gavetta, in quegli anni, era molto impegnativa. In realtà anche oggi l’iter non è cambiato. Occorre lavorare come giornalista retribuita – anche poco – per 2 anni collezionando un numero importante di articoli e ricevute di pagamento. Con questo bel plico di fogli di giornale e tanta soddisfazione nel cuore si può ottenere il tesserino dell’Ordine dei Giornalisti.
Un lavoro sul campo: quotidiano e continuo. I miei esordi sono stati in un settimanale del paese in cui sono cresciuta alle porte di Milano. Il mio capo redattore mi disse subito: «il giornalismo, quello vero, si impara con la cronaca». Non cultura o attualità, non spettacoli o sport. La cronaca. Possibilmente nera. (Quanti ricordi nella sala d’attesa dei Carabinieri per conoscere storie di dolore, paura e violenza!)
E così decise di affidarmi il mio primo pezzo.
Dovevo intervistare la moglie di un uomo, deceduto da pochi giorni, che aveva rappresentato un punto di riferimento importante per la comunità. Aveva lasciato in eredità ai cittadini una ricchezza fatta di esempi di condivisione e cura e di spazi sociali. Ricordo di essere entrata con entusiasmo in redazione: il capo redattore, un brillante quarantenne, mi fornì tutte le indicazioni utili e le tracce delle domande che avrei dovuto porre alla moglie e ai figli dell’uomo.
Come stavano?
Come vivevano questa perdita?
Quali erano state le ultime parole del marito e padre?
Come aveva vissuto gli ultimi giorni della sua vita?
«Queste sono le domande che ti porteranno a scrivere un pezzo di cronaca degno di essere letto. I lettori vogliono questo: crogiolarsi nel dolore degli altri» mi disse prima di lasciarmi andare. In quel momento ricordo di aver percepito una forte contrazione allo stomaco e una sensazione di nausea. Non era un buon segno ma io avevo 19 anni e volevo diventare giornalista. Avrei costruito il mio primo articolo di cronaca in modo che fosse degno di essere letto.
Davanti al portone della famiglia protagonista della mia storia mi sono fermata. Non ero a mio agio.
«Non voglio fare queste domande» era il mio pensiero fisso.
Suonando il campanello della porta di ingresso mi ricordo che la redazione mi aveva fissato l’appuntamento. Non potevo andare via. Mi stavano aspettando.
Mi aprì la porta una bella signora di circa 60 anni con un volto trafitto dal dolore e dalla preoccupazione. Quella che negli anni a seguire avrei visto spesso ogni qualvolta una persona in preda a un dolore veniva avvicinata da un giornalista. È l’espressione di chi sa che è arrivato il momento di scavare nel proprio cuore per cercare quello che più fa male.
Le sorrisi ma senza essere ricambiata. «La stavo aspettando, si accomodi». Ci siamo sedute sul divano e quella voce dentro di me ricominciò, questa volta più decisa «non fare quelle domande».
La signora sembrava preoccupata. Io ero a disagio.
L’intervista doveva iniziare.
Ci raggiunsero i figli: la ragazza in lacrime, il ragazzo più composto ma commosso. Ricordo di aver tirato fuori il mio taccuino, la matita e la voce.
«Voglio che sappiate che mi spiace molto per la vostra perdita e che il signor P. era un uomo molto amato nella nostra comunità. Vorrei che ai lettori del giornale restassero il suo esempio e i suoi insegnamenti». La signora appariva ancora diffidente e preoccupata. Scossa e spaventata.
Io, abbassando il volto sul taccuino, feci la prima domanda: «Quale, tra i doni lasciati alla nostra comunità, è stato il più sentito da suo marito?».
Passò qualche secondo.
Silenzio.
Occhi negli occhi.
I figli stringevano la mano alla mamma. Io ero in bilico tra la voce del mio capo redattore che mi chiedeva da dove avessi tirato fuori quella domanda inutile e quella della mia coscienza che mi urlava «brava!» applaudendo.
Poi accadde qualcosa.
La signora tirò su le spalle che fino a quel momento erano state curve, guardò in volto i figli, guardò me e mi donò un sorriso che non ho mai più scordato. Qualcosa è cambiato in quel momento. Lei ha iniziato a parlarmi di suo marito: come erano nati i progetti che aveva realizzato, quali i suoi più cari, quali non aveva fatto in tempo a realizzare sebbene avesse lasciato a lei tutte le indicazioni per farlo.
L’intervista andò avanti su questa strada:
quali insegnamenti aveva lasciato ai suoi figli?
Come gli sarebbe piaciuto essere ricordato dalla comunità?
Chi erano state le persone che lo avevano aiutato nei suoi progetti?
Come era possibile portare avanti ciò che lui aveva iniziato?
A un tratto tutto il dolore si era trasformato in gratitudine, gioia, entusiasmo e orgoglio. Io non mi rendevo ancora conto di quel che stavo facendo perché tutto era diventato un flusso meraviglioso di parole, sorrisi, sguardi di approvazione e ricordi da far riemergere. Nel mezzo un caffè, dei biscotti, un bicchiere d’acqua, il passaggio dal lei formale al tu colloquiale e le foto del Signor P. marito, padre e uomo impegnato per il bene degli altri.
Ero felice e soddisfatta.
Piena di gioia e appagata per aver condotto il mio lavoro in quel modo.
Mettendo via taccuino e matita ricordo di essermi soffermata sugli sguardi felici di tutta la famiglia. Li porto ancora con me. La signora mi accompagnò alla porta e salutandomi mi disse:
«Assunta, sei molto giovane e per questo voglio che tu mi faccia una promessa: condurrai sempre le tue interviste come hai fatto oggi. Mi aspettavo di dover rivangare il dolore come accade sempre con i giornalisti e invece tu mi hai dato modo di raccontare e ricordare quanto sia stato straordinario mio marito. Questa sera mi addormenterò serena per la gioia di averlo avuto accanto tutti questi anni. Ricordati sempre: le persone credono di voler conoscere il dolore altrui, in realtà hanno più bisogno di trasformare la sofferenza in qualcosa di utile».
Ho fatto quella promessa. L’ho portata con me ogni singolo attimo vissuto con un taccuino in mano davanti a una persona da intervistare. L’ho elaborata, rafforzata e resa visione.
Ogni parola che scrivo è il mio sì a quella promessa.
Un sì maturo che è passato dall’esperienza di giornalista freelance, dall’arrivo dei social media e poi dell’intelligenza artificiale, dal cambiamento epocale nel mondo dell’informazione e dalle migliaia di interviste condotte in questi anni. Dopo ognuna di queste, ancora oggi, chiudo il taccuino e mi chiedo se ho mantenuto quella promessa. A volte non l’ho fatto: mai per scelta consapevole ma per dinamiche da cui mi sono fatta trasportare. E quelle volte è stato difficile fare pace con me stessa. Ho imparato a trarne insegnamento per onorare comunque il percorso.
Cosa ne è stato di quell’articolo? Il capo redattore non l’ha presa bene ma mi ha dato il beneficio dell’inesperienza. L’articolo è uscito come volevano uscisse: in primo piano il dolore della perdita. Ma a lato un riquadro con l’intervista – ridotta - che avevo condotto io.
Le domande elevano la nostra creatività
Come giornalista ho posto domande per la mia intera carriera professionale. Ma fino a qualche anno fa non avevo mai riflettuto sull’arte del fare domande. E non avevo mai considerato il ruolo di una domanda nello spingere le persone a innovare, risolvere problemi, fare un passo in avanti nella propria evoluzione.
Le domande elevano la nostra creatività. Quando ho cominciato questa mia riflessione ho osservato che c’è una cosa che accomuna i grandi pensatori e visionari del passato con quelli di oggi: l’attitudine a porsi domande. Per molti questo approccio è stato la chiave per ottenere successo.
Eppure, quando ero piccola, ricordo che mi veniva detto spesso da insegnanti e familiari: «non fare domande stupide». Per un certo periodo di tempo questo ha bloccato il mio istinto alla domanda. Forse per questo motivo ho scelto una professione, il giornalismo, che si costruisce sugli interrogativi. E oggi che ho riscoperto quest’arte e il suo valore sono felice di poter dire che le domande sono uno strumento potente per risvegliare in noi ciò che è assopito da tempo. Che siano riflessioni, nuovi sguardi o soluzioni.
Il nostro cervello è stato creato per trovare la soluzione, non per pensare.
Purtroppo, però, ama la comodità e questo lo spinge a trovare sempre le scorciatoie che ci rendono frettolosi e poco coscienti rispetto alle azioni e alle scelte. Vale anche nella condivisione e nell’uso della parola.
Dobbiamo stimolare il cervello a pensare: ed ecco il valore delle domande.
Non so cosa ti resterà di questa newsletter, oggi.
Se posso proporti una conclusione direi che potrebbe essere interessante prendere carta e penna e scrivere a chi faresti delle domande che non hai mai avuto il coraggio di fare.
E poi se ci riesci, falle.
Ti auguro la scoperta di risposte strabilianti.
Assunta
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Dedicato alle edizioni più lette di questa Newsletter
A volte non poniamo domande, nella vita quotidiana, per non ricevere risposte che feriscono. E così anche verso noi stessi . Per tutto il resto ... brava Assunta! Uno dei tuoi "pezzi" che, nonostante la lunghezza e il tempo tiranno, ho letto più volentieri e che mi resteranno nel cuore.